Tuesday, May 22, 2007

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Wednesday, March 28, 2007

Il 72 (ragazze a budapest)

Una goccia di sudore gli stava colando giusto sotto la tempia destra. Sarebbe andata a finire tra i peli ispidi e rossi della basetta lasciata lunga alla moda degli anni ’70. Era diretto verso via Tokoly nella zona delle ambasciate. La strada si allargava e dopo un’ampia curva si apriva la parte terminale del parco municipale. Prima ancora, parte del complesso delle terme Szecsenyi finiva giusto a ridosso della strada. Dal bus era appena scesa una signora anziana che lo aveva tediato protestando per la pessima qualità della strada, gli scossoni e i sussulti del vecchio 72 l’avevano infastidita.

Era scesa al circo, si sarebbe divertita con il nipotino che la aspettava con la madre giusto all’ingresso. Li accompagnò con lo sguardo mentre andavano tutti e tre verso la biglietteria, si allinearono in coda.

Con la mano si teneva saldo alla maniglia di cuoio lurido che pendeva dalle barre sopra la sua testa. Era accaldato nonostante fosse dicembre, aveva corso per prendere il buon vecchio 72. Un trolley che partiva poco dopo Zuglo, attraversava la zona delle ambasciate, c’era una fermata proprio davanti a quella italiana, e poi faceva il giro del parco municipale. Non si addentrava verso la Piazza degli Eroi, la guardava da lontano e poi si buttava dritto verso via Arany Janos a un passo dalla Basilica di Santo Stefano. Era un trolley timido. A lui piaceva definirlo così, poiché passava vicino, ma mai davanti a luoghi molto importanti. Non era invadente, tuttavia andava a fermarsi a un soffio da via Andrassy e a due passi dalla grande basilica.

Guardava fuori dal finestrino, oltre, cercando un punto sul quale potersi concentrare e iniziare a pensare alla notte precedente. Cosa gli era successo, dove aveva passato la notte, sapeva che appena sveglio era stato colto dal bisogno impellente di vomitare e andarsene. Un giramento di testa lo colse quando il 72 frenò bruscamente immettendosi in via Podmaniczky. Si aggrappò saldo anche con l’altra mano.


La serata era iniziata al Soda, vicino alla Sinagoga grande, verso le 6, dopo il lavoro. Era arrivato con un paio di amici, avevano bevuto un paio di birre, si erano poi avvicinate alcune ragazze o loro le avevano avvicinate, questo non lo ricordava. Avevano iniziato a parlare, erano studentesse, non erano di Budapest, ma provenivano da alcuni paesi di campagna a pochi chilometri ad est della capitale. Una era particolarmente carina o almeno a lui piaceva. Era l’unica per la verità a non essere ungherese. Era turca, di famiglia turca, ma nata e vissuta in Olanda a Rotterdam. Studiava architettura e si trovava in Ungheria per un progetto di….e il resto lo aveva dimenticato. Avevano parlato un poco dei rimorchiatori nei canali di Rotterdam, lei sorrideva e lui capiva forse di piacerle. Lasciarono il locale, tutti insieme verso le dieci di sera. Si sentiva alticcio. Si ripromise che avrebbe continuato a bere birra per tutto il resto della serata. Una delle ragazze propose di dirigere l’allegra combriccola al Cappella, a lui venne in mente una canzone di Dalla e poi quella battuta sul consiglio di vita.

Ridendo tra sé accettò, gli altri due amici invece avevano convinto due delle ragazze a seguirli a casa loro per una pasta. La ragazza di Rotterdam declinò l’invito per il locale e lasciò il gruppo decisamente stanca. Lui si ritrovò solo con la ragazza che aveva proposto il locale. Si guardarono non troppo convinti, ma decisero tuttavia di andare. Capì solo una volta entrato che si trattava di un locale particolare, per omosessuali, non lo percepì subito, ma per gradi. Prima si rese conto che le conversazioni eterosessuali sembravano bandite nel locale, poi avvertì degli sguardi pesanti su di lui. Decise di bere qualcosa di forte. Offrì alla ragazza un Unicum e bevve d’un sorso, lei fece lo stesso. Iniziarono a parlare, più che altro commentando le scene che si alternavano di fronte ai loro occhi.

Lei allungò duemila fiorini alla barista e arrivarono altri quattro “corti��? li bevvero d’un fiato. Sentì i gli occhi impallarsi, ebbe quasi l’impressione che per girare lo sguardo avrebbe dovuto girare tutto il collo. Condivise questa strana sensazione con la ragazza, risero. Lei disse che invece gli occhi erano immobili e anche se ruotava la testa non riusciva a togliergli gli occhi di dosso. Lui capì, le passò una mano dietro al collo, la avvicinò a sé e la baciò. Non sapeva nemmeno il suo nome. Erano gli unici eterosessuali a baciarsi dentro il locale, si sentì molto più trasgressivo. Trasgredire tra i trasgressivi e mentre pensava queste cose sentiva la lingua umida di lei insinuarsi a cercare la sua. Erano entrambi seduti uno di fronte all’altra, su degli sgabelli vicino al bancone. Lei baciava decisamente male, aveva la sensazione di trovarsi dal dottore, come quando era piccolo. Si ricordava che il medico gli controllava la gola infilandogli l’astina di legno fino in fondo. Gli parve quasi di lacrimare, poi delicatamente la allontanò e si liberò da quella morsa. Ordinò due szilvas palinka, le buttarono giù insieme sbattendo rumorosamente i due piccoli bicchieri sul bancone.

Scesero dagli sgabelli e andarono a ballare, si sentì alcune mani estranee addosso, lo toccarono, la schiena, il sedere. Si convinse che faceva tutto parte del gioco. Iniziarono a ballare. Chiuse gli occhi e lasciò andare indietro il capo, pensò alle guglie del palazzo del Parlamento e al mercato dei cinesi nella terra degli angeli, vedeva ombre e luci alternarsi davanti a lui. Era in un caleidoscopio liquido e alcolico, sentì dell’acido provenirgli dalla bocca dello stomaco, di colpo riportò il collo ritto sopra le spalle evitando così che gli andasse di traverso il rigurgito dei succhi gastrici. Si accorse che il corpo che aveva addosso e che premeva, era quello della ragazza. Era sconvolta, con le punte dei capelli lunghi umide di sudore e appiccicate sul collo e sulla fronte. Era pallida, la pelle era di colore grigio, gli occhi una fessura, si rese conto che la ragazza stava per collassare. Fece appena in tempo a portarla all’esterno del locale, lei vomitò, due conati lunghi e profondi precedettero un fiotto denso di vomito che finì sul marciapiede, producendo lo stesso rumore dei gavettoni d’estate. Fermò un taxi. Il tassista abbassò il finestrino e lo mandò a cagare dicendogli che mai avrebbe caricato una in quelle condizioni. Mentre il taxi sgommava si rese conto che non avrebbe saputo dove portarla.


Il 72 nel frattempo aveva appena svoltato e imboccato via Podmaniczky, direzione Terez Korut. Si era distratto guardando i cani portati a passeggio. Era impressionante come di domenica pomeriggio la via fosse piena di cani e padroni. I cani defecavano, pisciavano e si annusavano, mentre i padroni chiacchieravano tra di loro passandosi il guinzaglio da una mano all’altra per evitare di essere avvolti nei cordini a causa dei liberi movimenti dei quadrupedi. Da lontano intanto si poteva scorgere un treno proveniente dal Balaton che entrava nello stomaco della grande stazione occidentale. I trolley rallentò e fermò all’altezza di via Iszabella.


La ragazza seduta a terra, la testa fra le gambe, sembrava essersi ripresa. Lui la guardava, stando in piedi e tenendo a stento gli occhi aperti. Ogni tanto l’appoggio della gamba veniva meno e goffamente doveva fare un passo all’indietro. Non si dicevano nulla.

Lei lo guardò e indicò un palazzo poco distante. Era casa sua, vicino c’era l’entrata di uno stabilimento termale con le scritte in caratteri liberty annerite dall’inquinamento, finestre e porte erano state murate, sicuramente dopo la chiusura, per impedire ai barboni di entrarci. I mattoni vecchi di trent’anni, stonavano rispetto all’architettura del palazzo che, se pur annerito da anni di polveri pesanti, sembrava aver goduto di un certo splendore fine de siécle.

Lei gli tirava una braga dei pantaloni, lui le prese il braccio e si avviarono verso casa di lei.

Nell’ascensore la luce al neon mise in evidenza i tratti della ragazza deformati dal troppo alcool e dagli scompensi dovuti al vomito. Entrarono, una luce fioca poco sopra l’attaccapanni a parete dava l’idea di un appartamento molto piccolo, dove abitava sicuramente più di una persona. Stava considerando il fatto che forse ci fosse qualcun altro nel appartamento, quando la porta di quella che doveva essere la cucina si spalancò. Una figura femminile che piangeva in silenzio andò dritta verso la ragazza, esitò una frazione di secondo e la abbracciò. Si guardarono e si baciarono appassionatamente. Riconobbe dagli occhi rossi per il pianto la ragazza turca di Rotterdam. Si baciarono come si baciano gli amanti, dopo una lite o dopo un lungo distacco. Le lacrime tuttavia di entrambe tradivano recenti tensioni.

Si staccarono e lo guardarono tenendosi per mano, sembravano uscite da un quadro che avrebbe voluto dipingere lui. La ragazza che era uscita con lui aveva addosso un paio di jeans a vita bassa e il cordino di un perizoma nero, usciva sul fianco. La pancia era scoperta e una camicetta sbottonata mostrava un seno morbido e generoso costretto nel push up,. Era la prima volta che la guardava. L’altra ragazza aveva un paio di pantaloni sportivi e portava un pastrano multicolore di lana grossa e grezza, fatto a mano. Ricambiò il loro sguardo, gli offrirono un the caldo e un posto sul divano. Si addormentò mentre le due ragazze sulla poltrona di fronte a lui toccandosi si spogliavano.

Il 72 fermò poco distante dal ristorante medievale. Aveva iniziato a piovere e faceva decisamente freddo. Ripensò a Ania una ragazza di Berlino, cresciuta a Berlino est. Gli sarebbe piaciuto sapere che fine aveva fatto, chissà se ogni tanto pensava a lui. Di seguito poi gli venne in mente Alexander Platz. Fermò i suoi pensieri quando una donna con le borse sotto gli occhi di poche parole e molti pensieri lo urtò scendendo in via Bajcsy Zsilinski. Si avvicinava il capolinea, da lì avrebbe preso la metropolitana e avrebbe raggiunto casa.

Al risveglio non trovò le due ragazze di fronte a lui, sulla poltrona, ma solo vestiti e biancheria gettati a terra. Il cordino del tanga si era arrotolato su sé stesso e lo slip era a terra appallottolato vicino ad una tazza gialla. Sentì il forte desiderio di andarsene, aveva l’impressione di aver violato l’intimità delle due amanti. Un forte odore di sesso femminile gli fece pensare che avessero fatto sesso fino a poco prima che lui si svegliasse. Uscì dalla stanza e sentì dal bagno il rumore dello scroscio dell’acqua dello sciacquone, poi le sentì ridere entrambe. Si aveva invaso la loro intimità, girò la chiave nella serratura e se ne andò lasciando la porta aperta.Una volta uscito dal palazzo, poco distante, trovò alcune persone che aspettavano il 72.
La Turca
November 14th, 2005 by puskas


La turca per i più è un tipo di cesso.

Per me è una ragazza che voleva darmela, ma poi l’ha data ad un danese.

Ci credevo davvero. È arrivata tutta sinuosa, sembrava Amanda Lear. Io di ghiaccio come al solito con i sudori freddi. Avevo iniziato a parlarci sul pontile di una nave in mezzo al danubio, che poi che cazzo ci facevo lì.

E lei che parlava e io che le dicevo dei rimorchiatori di rotterdam, le navi intendo. E lei che mi ascoltava e il danese seduto dietro di lei che le guardava il culo. Mica diceva niente, forse era più ubriaco di me, ma cazzo se sapeva guardare. Questo mi sa che ha fatto la differenza.

E si che mi ero vestito anche per bene, con il vestito e tutto.

Era vestita che sembrava una di quelle che fa pattinaggio su ghiaccio con il vestito tutto di pajettes e lustrini e azzurro e veli e…..mah. Bella, una bella ragazza, una bella turca e non è un idraulico di Instanbul a dirlo, per chiarire.

E parlava di lei, che aveva viaggiato che aveva avuto un moroso rifugiato politico e io intanto che pensavo che la cosa più politica e rifugiata che avevo fatto era chiudermi nei bagni del liceo a limonare durante le occupazioni (poi autogestioni). E mi raccontava di montagne e gli altipiani dell’Anatolia e io pensavo al Monte Grappa e ad Asiago e al Montello. E io che prendevo freddo in camicia e basta e il danese che guardava.

Ora, abbiamo attraccato, ma mi sono perso e distratto. Ho lasciato la turca e sono stato agganciato da una svedese che per i più è una ragazza proveniente dalla Svezia e basta. Mi ha detto che nella sua lista di preferenze maschili ero al terzo posto, poi ha corretto dicendo secondo, dopo suo marito…..mah, sarà stato per via del mal di mare. Mi ricordo me l’ha detto in una enorme stanza, non c’era nessuno, era a poppa. C’era una tavola enorme piena di dolci e io che le ho portato un piatto pieno di creme e mignon. Lei ringraziava, non so. Poi sono arrivati i camerieri e ci hanno mandato via dicendo che erano le due di notte e che se rimanevamo, ripartivano per il Nord con un viaggio organizzato dal dopo lavoro ferroviario di Dresda. Mai in gita coi tedeschi! Abbiamo riso.

Ho recuperato la giacca che avevo lasciato su un ripiano. Qualche dotto l’aveva usata come panno vileda per assorbire un vajont di cabernet sauvignon.

Una volta sulla terra ferma, abbiamo messo insieme un’allegra combricola e qualcuno ha detto che andavamo a Mosca altri a Cuba. Alla fine siamo andati in un centro commerciale, in locale che si chiamava Cuba Libre in piazza Mosca. A quel punto ho capito.

Ci siamo andati a piedi. Io, un chioggiotto arrivato con un barcone dei pescatori di vongole, un cinese di Prato, una norvegese e una svedese, non c’era il marito.

La strada era in salita e i taxi passavano a ricordarci che ne avremmo potuto prendere un paio.

La mia giacca si appiccicava un pò al cappotto, un pò alla camicia a seconda del passo. Qualcuno correva, io arrancavo. Una volta arrivati e entrati, ho ordinato Una Cerveza!, il cameriere mi ha guardato e giudicato, io A BEER! Non c’era Combai Segundo, ma un campionario di giovani ungheresi e prostitute a far festa. C’erano anche altri italiani.

Poi sono andato a pisciare e andando ho visto la turca che beveva una Ceres. Ho iniziato a far confusione tra birre danesi, turche, bagni e la mia cerveza a cuba.

Abbiamo ricominciato a parlare poco furori del cesso, adesso mi parlava della musica e dei dervishi e a me veniva in mente Battiato e le cavigliere del katakali. Sono andato a pisciare e un tipo si stava lisciando i capelli con l’acqua. Il danese.

Mi sono buttato in pista, ma qualcuno sostiene che stessi solamente muovendo le ginocchia avanti e indietro con i pollici in tasca. La turca allora si è avvicinata e ha fatto tutti dei movimenti scendeva e rislaiva, mi parlava a due centimetri dalla faccia di non so che cosa, mi sembrava di essere un palo per la lap dance. Fonti attendibili e sobrie narrano che la parola „palo��? si addiceva alle mie movenze e che i miei bio ritmi sembravano semplicemente andati. „gone!��? continuavano a dirmi da lontano.

Dietro a lei che si dimenava, c’era il danese che le guardava il culo.

A quel punto è arrivato l’olandese, di Rotterdam. E l’ha rimorchiata, nel senso che l’ha portata via, e l’ha guidata nei canali e nelle chiuse del porto olandese. Io l’ho lasciata andare e avevo i pollici in tasca.

Poi è tornata, non so cosa si siano detti, ma sta di fatto che appena ho girato lo sguardo l’ho vista su un divametto a smorza candela sul danese, che vista la posizione non poteva più gurdarle il culo. Sono rimasto lì a ballare ancora un’ora, con le ginocchia avanti e indietro e pollici in tasca.

Ho preso il primo tram del mattino e ho camminato fino a casa, mi sono mangiato due hamburger.

Ho aperto la porta di casa e mi sono fiondato al cesso, che a casa mia fortunatamente non è una turca.

Wednesday, November 16, 2005